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Big data sì, big data no: quanto costa essere on line?

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“I poveri del XXI secolo sono, al pari di chi non ha denaro, coloro che, in un mondo basato sui dati e sulle informazioni, sono ignoranti, ingenui e sfruttati” (leggi tutto qui). Dallo scorso 25 maggio, in linea con il Gdpr, i siti internet ci avvisano della presenza di cookie, ci danno la possibilità di consultare la cookie policy e anche di negare alcuni consensi. Tuttavia, in pochi si soffermano a leggere questi documenti (e soprattutto riescono a decifrarne il linguaggio).

Che cosa sono i Big Data

Quando postiamo una foto su Facebook o facciamo una ricerca su Google, che si tratti della spesa settimanale o della bibliografia per la tesi di laurea, lasciamo una traccia, come le impronte dei piedi sulla sabbia. Queste tracce dicono qualcosa di noi, dei nostri gusti, dei nostri interessi. L’insieme di milioni di tracce simili alle nostre è quello che chiamiamo Big Data. Ciò che caratterizza i Big Data è sia il volume delle informazioni, sia la varietà di dati che possono essere analizzati ed elaborati insieme. Altre variabili sono la velocità e la variabilità.

A cosa servono i Big Data

I sistemi che elaborano dati sono in grado di fornire correlazioni e fare previsioni attendibili per il futuro in ambiti anche molto diversi. Ma possono anche essere utilizzati (acquisiti e venduti) al fine di influenzare se non addirittura manipolare l’opinione pubblica. Di questo processo siamo spesso inconsapevoli. Il nostro essere online (continuo, pensando alle applicazioni scaricate sullo smartphone) ha un prezzo: in cambio di servizi “gratuiti” cediamo informazioni su noi stessi.

Ma quanto valgono veramente queste informazioni, cioè quanto sono precise le previsioni basate sui Big Data? Sabina Leonelli (Università di Padova) dice che i dati grezzi non ci forniscono informazioni sul mondo a meno che non li interpretiamo e per interpretarli dobbiamo aver elaborato una teoria, seppur rudimentale. Già i mezzi che usiamo per acquisire informazioni dal mondo sono elementi di mediazione. Infatti, un ricercatore che produce dati lo fa attraverso apparati costruiti sulla base di principi teorici precisi. Anche il modo in cui i dati vengono organizzati spesso è molto basato su teorie, su aspettative su come usarli”.

Simone Paliaga avverte che la devozione cieca ai numeri mette in pericolo le imprese, il mondo della scuola, i governi e le vite dei singoli. Solo la capacità di dare senso alle azioni, il sensemaking, proveniente dalla filosofia «insegna a individuare cosa meriti la nostra attenzione e a stabilire cosa realmente conti».

Se i dati che oggi influenzano le nostre scelte sono il risultato delle nostre azioni on line di ieri, forse possiamo impegnarci per immettere in rete informazioni buone, aumentando la visibilità di iniziative utili per il progresso della società perché “appare evidente (vedi qui) quanto sia necessario portare un contributo etico ed evangelico al mondo dei dati e degli algoritmi”.

di Valentina Raffa

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